Dal 1992, Loris Petrillo irrompe sulla scena coreografica con un’impronta caratterizzata da una “fisicità dirompente¹, “punteggiata da intuizioni di poetica consistenza²”. Le sue opere coreografiche da sempre sono espressione di un “linguaggio anti simulazione (Baudrillard), antidoto, o meglio, alternativa alla rappresentazione con la forza espressiva (non comunicativa) generata direttamente dall’istinto³”. Negli anni, Petrillo si è spesso dedicato a un’attenta e mai ordinaria rilettura delle opere di repertorio, guidata in primis da uno “spirito provocatorio” che di fatto ne dissacra il contenuto, approdando così a nuovi spunti per la contemporaneità. A tal proposito, lo stesso Petrillo asserisce che <<quanto più un classico assume importanza, tanto più deve aprirsi a nuovi spunti, nuove interpretazioni, proprio per non rischiare di diventare anacronistico e perdere la capacità di dialogare con il tempo presente>>.

Forte del binomio costante tra forte fisicità e vibrante poetica che caratterizza le sue opere, negli anni Loris Petrillo è stato invitato a realizzare coreografie per prestigiosi Teatri e Compagnie, oltre le creazioni realizzate per la sua Compagnia, attiva dal 2000.

¹ Carmela Piccione – “Il Tempo”
² Walter Baldasso – “prima fila” mensile di teatro e spettacolo dal vivo
³ Christopher Cepernich – “Corriere dell’arte”
⁴ Cristina Armeni – “Il Tempo”

press quotes

"Petrillo ha entusiasmo e possiede un certo mestiere, che gli consente di lavorare in souplesse; e, quel che non guasta, conferma di saper arrivare al pubblico in modo semplice  e diretto."

Elisa Vaccarino

" una danza fortemente improntata alla fisicità, quasi istintuale e animalesca, che restituisce al balletto la sua natura senza mai tradirne la straordinaria eleganza. "

Silvia Poletti

"Una lacerazione vera però, violenta, carnale, danzata e rivissuta con l’intensità che caratterizza il linguaggio coreografico di Petrillo, una lacerazione che non lascia spazio alla misura inautentica del compromesso, non si piega alla mediocre onestà della mediazione"

Paolo Randazzo

"Una danza carnale dove le pulsioni arrivano come uno schiaffo rigenerante."

Monica Ratti

"La coreografia di Petrillo accende il piacere di una danza molto fisica, incessantemente dinamica"

Daniela Cecchini

reviews

2018

Eppure questo esercizio di forma, questo azzardo che sarebbe potuto scadere nella vuota sfrontatezza risulta invece un grande esempio di stile e misura.
L’armonica fisicità dei danzatori, la loro nudità, la loro trionfale giovinezza sono incantevoli e sapientemente messe a disposizione della tensione narrativa.

Sotto la guida di Petrillo, [i danzatori] riescono a risultare corali e al contempo la loro diversità in presenza e carattere dona ricchezza all’azione scenica.

 

con un lavoro che segna una continuità con il precedente “One plus one equals one”, rivisitando e approfondendone le dinamiche fisiche che condizionano il movimento del corpo, più specificatamente del corpo-Polvere.

L’intero spettacolo ruota attorno a questo concetto: la polvere, un complesso di particelle di terra secca, sollevato dal vento e depositato ovunque. Loris Petrillo, Yoris Petrillo, Luca Zanni gli danno corpo e vita. Ne viene fuori una performance con elementi scenici e coreografici interessanti fino alla scena finale in cui la polvere “esce fuori” dagli abiti di scena e diventa tutt’uno con l’aria, il corpo e lo spazio.

2017

Si inizia con un Bolero (quello di Ravel) dove il tre quarti scandisce un vortice ossessivo di passione che si esprime visivamente non con la consueta immagine degli amanti (ormai un po’ trita), bensì con la potenza dei corpi atletici, quelli dei danzatori maori di haka (o di altre popolazioni che conservano, nelle danze tribali, le loro radici culturali e il loro accesso alle forze più viscerali ed emozionali). Il crescendo del vortice di Ravel si fa gesto e movimento di quei viaggiatori dello spazio e del tempo, che giungono a noi sulle canoe polinesiane per portarci nel loro universo di senso e bellezza, con un’idea registica – oltre che coreografica – originale ed emozionante.
Stacco preciso, qualche minuto di pausa condito di ironia, e ci si ritrova nella Gaîté Parisienne di Jacques Offenbach.
Qui la danza si sposa alla pantomima, il Moulin Rouge sembra trasferirsi sulle tavole del Rifredi. Ma non sono le solite ballerine in piume di struzzo dalle gambe chilometriche ad ammiccarci dal palcoscenico, bensì gli otto danzatori che, fino a qualche minuto prima, ci avevano invitato a sperimentare “Ka mate, ka mate” (È la morte, È la morte) per rinascere a “Ka ora, Ka ora” (È la vita, È la vita). L’ironia regna sovrana, tra quadri volutamente kitsch e momenti esilaranti. Il gesto diventa comunicazione basica e universale. Gli assieme riportano il discorso sulla danza pura, con una compattezza che miscela le personalità e punteggia gli a solo, vergati di attoralità, con momenti corali schiettamente coreutici.
Il can-can finale, decisamente liberatorio e compartecipato dal pubblico in sala (doveroso il bis), ha l’intelligenza di rimettere in discussioni ruoli e stereotipi, mascolino e femminino, e di affermare la bellezza di un’esplosione primaria intessuta di leggerezza erotica e desiderio vitale.

2016

attraverso il quale si giunge al superamento dei limiti del proprio corpo, in cui la virilità diviene poetica del movimento perché trascende dalla sola fisicità.
Una danza carnale dove le pulsioni arrivano come uno schiaffo rigenerante, che scuote, fa male, ma al tempo stesso ritempra, e ognuno di noi prende coscienza di essere un guerriero che, attraverso il dolore, la tenacia, la sofferenza, combatte per l’amore della vita.

Ironico, dissacrante, a tratti comico il Gaité Parisienne di Petrillo. Un piacevole intreccio di danza/teatro che indaga la sessualità. (…)
I personaggi di Petrillo urlano e sussurrano, si vestono e si spogliano, fluttuano e si aggrovigliano in un dosato mix di parole e danza. E’ proprio nello strepitoso, esilarante Can Can finale, in cui tutti i danzatori si liberano degli abiti per mostrarsi in uno scintillante perizoma e si scatenano in una travolgente danza, che tutti i quadri precedenti riportano alla centralità che ha guidato Petrillo in queste creazioni: il Corpo quale massima espressione della libertà.

 Suo questo dittico tutto al maschile andato in scena al Puccini che affianca «Boléro» di Ravel a «Gaité Parisienne» su scoppiettanti musiche di Offenbach. Nel primo otto baldi ragazzi, in maglietta e jeans, sottolineano il peculiare uso che Petrillo fa dell’energia e della potenza fisica negli attacchi, in un inno alla mascolinità «primaria». In netto contrasto, la lettura di «Gaité Parisienne» è invece decisamente grottesca, volutamente camp, con grande spazio alle diverse identità di genere che si animano in una sorta di cabaret. Qui la girandola dei personaggi attinge ai clichés stilistici del burlesque e strizza l’occhio alle tipologie freak calcando la mano (un po’ troppo?) per descrivere le vacue frivolezze di un’umanità che non sembra accorgersi di danzare sull’orlo di un vulcano.

2015

sembra che il coreografo voglia provare a portare la sua danza, il suo linguaggio coreografico, il suo stesso spettacolo nelle vaste terre del comico. Terre che Petrillo scopre facilmente nel testo di Cervantes in tutta la loro fertilissima consistenza e che restituisce nella loro straordinaria bellezza.
Ma come è noto, e come del resto lo stesso Petrillo sembra aver chiaro, la comicità è parente stretta della rivolta politica e dell’utopia ed ecco che all’interno di questa stessa linea di sviluppo s’innesta un serrato confronto verbale con la realtà contemporanea.

Il suo è un impegno anche sociale politico e culturale che traduce in danza con linguaggi in continua evoluzione.

Lo spettacolo Don Quijote, che trae ispirazione dal romanzo di Miguel Cervantes, è dunque una delle espressioni rappresentative della danza di Petrillo. Ballo e drammaturgia si mescolano continuamente alternando momenti di forte espressione e impatto fisico con una tensione espressiva teatrale, dando spazio a una concezione del movimento in cui non esistono limiti imposti.

2013

Nicola Simone Cisternino attraversa con tecnica e disinvoltura l’idillio e il tormento, l’angoscia e il suicidio di un animo troppo inquieto che cercò nell’arte la luce della natura per trovarvi infine il buio della psicosi.

Interessante e anche di grande effetto, la tecnica di Petrillo si concentra sulle dinamiche e le forze che agiscono sul danzatore in movimento. Il centro del corpo, l’addome del ballerino, diventa soluzione e richiamo di tutta l’azione gestuale che dunque implode senza perdere pathos ma, anzi, riproponendosi amplificata negli spasmi misurati di gambe e braccia vibranti.
Successo indiscusso, al Teatro Vascello, per il danzatore Nicola Simone Cisternino. Applausi e consensi per il coreografo Loris Petrillo.

2012

Progettato come un’esperienza di ricerca, in controtendenza con le precedenti creazioni di Petrillo, impaginate su una chiave più mitico-narrativa, quest’ultimo lavoro del coreografo di origine romagnola si distingue per una tessitura incardinata alla dimensione sonora data dalla musica elettronica live del bravo Pino Basile. La sfida sembra essere quella di esplorare il movimento del corpo inteso anche come fonte sonora, grazie alle particolari alchimie elettroniche che in scena ne fanno la fonte immaginaria di un mondo dalle misteriose risonanze acustiche. Partendo dall’elettronica appunto, lo spettacolo evoca un percorso a ritroso, dall’uomo cibernetico e quasi disumanizzato, fino al ritrovamento del sé, passando per la dimensione primitiva, dove più evidenti sono le saldature tra sonorità del corpo, ritmo e danza. 

La coreografia di Petrillo accende il piacere di una danza molto fisica, incessantemente dinamica, ben interpretata dai giovanissimi e atletici danzatori, unitamente alla intensa fruizione delle imprevedibili sonorità create da Basile, capace di contaminare musica elettronica con percussioni, oggetti da riciclo, microfoni e sensori elettrici sparsi in scena, in modo da affascinare e stupire gli spettatori

Se il corpo segue l'onda sonora come un robot

quasi istintuale e animalesca, che restituisce al balletto la sua natura senza mai tradirne la straordinaria eleganza. “Il lago dei Cigni di Petrillo si propone così come una rilettura del capolavoro di Ciaikovsky, Petipa e Ivanov sia nella drammaturgia, che punta a evidenziare i temi assoluti celati nell’antico libretto, sia nel linguaggio coreografico che mette alla prova i danzatori per il suo esigente e costante cambio di tecniche e modalità espressive”

2011

Sentimenti primordiali, seduzione, erotismo, istinti, carnalità, gelosia fino alla follia, disperazione, sopraffazione, spietatezza: i corpi scavano nella cronaca della vicenda gli impulsi assoluti dell’essere umano.

La vera forza di questo spettacolo sta nella demistificante carica polemica e nella capacità di attualizzazione di un mito sentito come riflessione etico-sociale, analisi del genere umano, del suo agire e del suo pensare.
Medea è la sintesi di tutto il conflitto umano tra razionale ed irrazionale, nel suo conflitto trovano corpo, gli slanci generosi, la passione, ma anche la malvagità e tutte le mostruosità di cui si può essere capaci.

2010

una lacerazione che non lascia spazio alla misura inautentica del compromesso, non si piega alla mediocre onestà della mediazione, non concede infine alcuna credibilità ad una virilità (quella di Giasone), che si confonde, si spoglia e incespica, si scopre vestita da sposa, dichiara tutta la miseria e la fragilità del suo essere: «…io dovevo sistemarmi, ecco tutto».

2008

– primo ballerino, coreografo e regista di “La pelle del popolo nudo”, fino a ieri a Scenario Pubblico – che di un episodio “satellite” dell’ultimo conflitto (la costituzione dell’Evis, esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia) fa un deflagrante, ipercinetico atto unico. In odore del Ryan di Spielberg, di “Ritorno a casa” (lì il funesto “teatro” era il Vietnam, andata e ritorno), con un occhio e il cuore alla “Ciociara”.
In principio è terremoto. Quello vero della Sicilia-vulcano e quello fatto da crateri mai spenti: gli uomini di “calcio/canna/grilletto”, come in un loop ossessivo e letale. E ad aprire le danze (su musiche di Petrillo e canti della tradizione popolare) sono giusto loro, leggendari terremotati della Storia. In una parola, siciliani. Siciliane, specialmente. Eccole, Rosanna Cannito e Rosa Merlino (tersicoree d’efficace turbolenza e sapienza tecnica a cui è affidata la magna pars cinetica dello spettacolo), telluriche come la terra che le ha generate fino quel 22 luglio del ’43, con Palermo conquistata e “liberata” e meno di un mese dopo Catania, con inglesi, scozzesi e cornamuse al seguito. E se le donne seguitano a “muovere” la scena della vita con piglio forsennato, gli uomini (Massimiliano Burini, autore dei testi, Giuseppe Muscarello e Petrillo) balbettano racconti di guerra improbabili ma imbrattati di sangue vero. Si manipolano a vicenda come burattini e, ammorbati dalle dominazioni, da sempre, gridano libertà come bambini malati di mente.
E su corpi ammonticchiati, svestiti  e vestiti di verde mimetico, cantano orrori di guerra come errori di stampa a cui più nessuno fa caso. Impeti patriottardi ed agonia, addestramenti che sono già armi letali in cui i “sissignore” sono ormai giaculatorie funebri. Ironia cruenta e cruentissima storia fanno quadrato rosso sangue di un sarcasmo che conosce punte di accattivante istrioneria, come la satira a “Badoglio, ingrassato dal fascio littorio” che è un piccolo, grande campione di mimo raffinato e turlupinante.
E non meno tragicomica sarà la chiusura, tra De Gasperi che finalmente “affianca” la Sicilia, il 2 giugno del ’47, ed il mitico lancio di caramelle made in Usa, all’urlo surreale e beffardo di “Free now!”.

2007

Il cece nel secchio è infatti il tema-titolo dello spettacolo di danza che ha concluso al Teatro Libero la rassegna <<presente/futuro>> organizzata proprio dal teatro di piazza Marina, conclusa la stagione, e dedicata ad artisti che vivono e/o lavorano in Sicilia.
Labili i confini tra follia e normalità: l’analisi di comportamenti che coinvolgono i cinque danzatori sembrerebbe confinarli in un’area di esclusione dal mondo dei <<normali>>. Vi si coglie il senso di una separazione che per qualche momento è superata dal gesto dell’altro (ceci in bocca di uno che l’altro raccoglie) o da un comune slancio di violenza. Efficace il raccordo musicale che conosce lo straordinario feeling della musica di Caccini con l’intensità desolata di un volto e di coinvolgente ritmo la partecipe abilità fisica degli interpreti. A conclusione, pioggia di ceci e ardua prova per i piedi nudi dei danzatori.

2000

racconta come studenti, professori d’università, di liceo e maestri di scuola si siano prodigati all’indomani della conquista nazista della Polonia, per assicurare l’istruzione alle nuove generazioni, clandestinamente e rischiando le proprie vite.
Europa o paure offre uno spettacolo insolito, diverso, coinvolgente, a tratti eccitante. Assente la scenografia che si veste di movimenti convulsi, sofferenti, poi gioiosi dei ballerini, assenti i costumi che si riducono a canottiere bianche, mutande, semplici grembiuli grigi in una sinergia continua di passi e gesti che accarezzano l’aria, che scuotono lo spazio, che parlano il linguaggio muto e istintivo del corpo. Per ricordare la storia passata e per ricordarci che siamo prima di tutto uomini, capaci e sottomessi alla grande, infinita emozione di vivere.

1999

Nel contempo, l’occasionale riaffiorare del lirismo della partitura originale, nel contesto così scabro, sortisce effetti di autentica poesia, in una con l’efficace associazione visiva ai momenti di più esplicito coinvolgimento amoroso dei protagonisti. La compagnia danza ad alto livello, sottolineando il contenuto simbolico ed espressivo delle consegne coreografiche, senza fare mera esecuzione di atletismi. Una violenza quasi espressionista intride il quadro complessivo, permeando ogni significante gestuale e prorompendo nelle scene di violenza vera e propria.

Gli acrobatici amplessi di Giulietta e Romeo

nel caso una Natura algida e futuribile, tratta direttamente dall’immaginazione cinematografica di Luc Besson – e di raccontare simbolicamente il conflitto intellettuale leopardiano come fosse il Lamento di Prometeo (titolo del lavoro): muove con mano decisa l’intera compagnia e sfodera un buon mestiere nelle danze di insieme (come quella maschile virile ed efficace).

Trittico poetico per Leopardi nelle coreografie di Aterballetto

1998

con un linguaggio basato sulla commistione di postclassico e moderno che procede veloce – sulla partitura di Giuseppe Calì – per immagini serrate affidate al potere evocativo del puro gesto.

come lui idealmente alle prese con un’umanità persa nelle tenebre. Petrillo enuclea i temi filosofici portanti del pensiero leopardiano in quattro scene, tra le quali spicca il canonico conflitto con la Natura, dando un taglio postclassico, ricco di richiami stilistici e coreutici alll’intero lavoro. Il quale si rivela assai funzionale nel suo impianto teatrale, anche se stilisticamente troppo eclettico, ma trova alcuni spunti interessanti soprattutto in una danza maschile che rimanda alle atmosfere di Preljocaj e nell’intervento della robotica Natura.

Stimolo alla conoscenza, infelicità e recupero degli antichi: un tema imponente, risolto con bello spirito teatrale (molta danza maschile, scale volanti di corda, tagli di luce scenografici).

1997

<<In effetti, ho perso un po' il gusto di ballare su cose che non mi stimolano. Fare il coreografo è una cosa che invece mi entusiasma e che faccio d'istinto>>. A 31 anni d'età, Petrillo ha all'attivo una carriera molto interessante, iniziata al Balletto di Toscana e proseguita al Ballet Royal de Charleroi e poi a Berna e al Regio di Torino, dove Robert North l'ha voluto protagonista di Annunciation e gli ha trasmesso il gusto per la coreografia. Ricordiamo Les petit riens di Mozart, messo in scena da Loris Petrillo nel '94: gavotte briose e rievocazioni rococò, leggerezza e ironia anche nei costumi, che facevano il verso ai <panier> delle dive ballerine del Settecento. Veniva presentato insieme alla Giara, la commedia coreografica di Alfredo Casella tratta dalla novella di Pirandello.
Dopo una parentesi di due anni, impiegata dal coreografo-danzatore per rileggere in chiave metropolitana il Romeo e Giulietta per la Compagnia di Loredana Furno, ecco che il Regio ripropone La Giara per le scuole ma con un abbinamento a sorpresa. Non più Les Petit Riens bensì Underground: un'esplosione di colori al neon, graffiti, suoni bassi, ipnotici, ossessivi. Dalle scene di Enzo Busco ai costumi di Laura Viglione, dalle percussioni <live> dello Stick & String Quartet alle contorsioni rap-hip-funky dei bravissimi ballerini capaci di passare dai ritmi sobri e implosivi della Giara alle fantasie soliste di un linguaggio <tech>, tutto concorre ad entusiasmare il pubblico che interviene con urla di gioia ed applausi a scena aperta.

Il ritorno di Loris Petrillo

L’eroe di Cervantes sembra muoversi in una periferia metropolitana e Luca Alberti gli presta una atleticità molto accentuata, ma anche stupore e delicati slanci passionali: tutte qualità che aggiunte all’ironia e al sarcasmo servono al Cavaliere per ricordarci che a questo mondo tutto è possibile, tutto è un grande teatro dominato dalla casualità. Petrillo ne da una versione in linea con il mito letterario e, a parte qualche lungaggine di troppo nella prima parte, la sua coreografia è fluida, concreta, basata su un’essenzialità che i ballerini di questa giovane formazione comprendente, tra gli altri, Lorenzo Casorelli, ex del teatro Nuovo, assecondano con convinzione. Ne è convinto anche il pubblico che <chiama> con insistenza.

nel Balletto di Toscana, al Ballet Royal de Wallonie e allo Stadttheatre di Berna, impegnato in pagine intense scritte da grandi maestri della danza contemporanea come Robert North, Nils Christie ed Eugenio Poliakov. Da qualche anno si dedica alla coreografia con crescente successo.
Loris Petrillo colora di ironia e di sarcasmo Don Chisciotte, che è animato da una fede assoluta nel suo essere eroe, che crede nel sogno in cui vive e possiede un personale codice d’onore che gli può consentire di percorrere il cammino della vita reale senza umilianti compromessi.

La compagnia di danza Teatro di Torino ha portato in scena il dramma shakespeariano mettendo a frutto tutta la positività dell’avanguardia espressiva corporea, richiamando l’attenzione sulla valenza pregnante della forza e del vigore che la danza può sprigionare.
Una compagnia molto equilibrata, guidata da un preciso disegno artistico, ha saputo cogliere il valore della preziosa coreografia di Loris Petrillo e della regia convincente del giovane Andrea Scaglione, materializzando una passione e una vitalità emotiva suggestiva ed efficace. E se il primo atto ha saputo maggiormente cogliere la straordinaria polifonia estetica del grande Shakespeare, tutto il balletto è stato ricco di intelligente propensione artistica, dimostrando la qualità della proposta.
Pubblico positivamente coinvolto dall’affascinante percorso che Vetrinadanza ha offerto e che questo balletto maggiormente ha saputo sottolineare.

Don Chisciotte, il cavaliere spagnolo che lotta contro i mulini a vento in nome del suo ideale di giustizia torna finalmente a riconquistare un posto di primo piano ed emerge dal fondale di un celebre balletto classico di Marius Petipa che lo relegò al ruolo di comparsa nella storia del complicato amore tra Kitri e Basilio. Petrillo ripercorre a grandi linee la storia raccontata da Petipa ma la sua versione, decisamente moderna, guidata da uno spirito provocatorio, dissacra il repertorio. Come è giusto che sia. La sagacia contemporanea di Mats Ek ci ha fulminati con il suo Lago dei Cigni, Maguy Marine con la sua Cenerentola, anche Mauro Bigonzetti ha lasciato un segno con la sua Coppelia.
Petrillo che proviene da una brillante esperienza di primo ballerino in ottime compagnie come il Balletto di Toscana e il Ballet Royal de Wallonie non è nuovo a questo genere di operazioni coreografiche, suo un Romeo e Giulietta interpretato dal Teatro di Torino, in cui alla musica di Prokofiev ha audacemente accostato i tamburi del Bronx. Questo Don Chisciotte si avvale delle musiche originali di Giuseppe Calì, attinge dalle musiche popolari spagnole e turche, a Ravel, a Gabrieli mentre conserva di Minkus solo il passo a due del secondo atto, una vera e propria esplosione di energia che anche in questa versione dà adito a Kitri e Basilio, rispettivamente Sarah Piccinelli e Kim Saveus, di esprimere nel duetto d’amore un temperamento romantico senza cadere nel romanticismo tardo ottocentesco.

1996

I momenti più delicati e struggenti della partitura di Prokofiev sono lacerati dalle percussioni dei Tambours du bronx, voce del contemporaneo; il canto è interrotto, il ritmo è violento, la scenografia di inquietante modernità; Romeo è il “dissidente”, l’uomo che fatica a dialogare con il mondo, colui che parla un linguaggio postmoderno alla I.yotard filosofo alla moda negli anni ottanta – o che parla secondo il pensiero del regista che definisce questa lettura shakespeariana come balletto del silenzio, dell’amore a cui manca la parola. 

la musica e la danza sono proposte come soluzione al dilemma della fuga dalla rappresentazione, cancro irreversibile del teatro di prosa. "Spesso le parole non riescono a spiegare ciò che le sensazioni provocano" coglie Loris Petrillo, non per nulla coreografo -; ecco dunqeu il ballo farsi linguaggio anti simulazione (Baudrillard), antidoto, o meglio, alternativa alla rappresentazione con la forza, espressiva (non comunicativa) generata direttamente dell'istinto. Battuta la significazione, alle parole non resta che il significante, vale a dire la loro intrinseca musicalità. Non rimane ai ragazzi che ballarci sopra, rimettere l'azione pura al centro della tragedia di Shakespeare. E' infatti il cortocircuito autoreferenziale del testo scritto copiato in scena dagli 'attori ripetitori' la tragedia (questa sì) del teatro attuale; la danza - come nel caso di questo Romeo e Giulietta - sa indicare una "via espressiva al teatro del testo". "Non cercate il significa, cercate l'uso", ripeteva Wittgenstein. E aggiungeva: "Ciò che vi do è la morfologia dell'uso di un'espressione. Vi dimostro che essa ha usi dei quali non vi eravate mai sognati".
Non ingannino però simili riflessioni: la sintesi estetica prodotta dalla Compagnia Teatro di Torino si segnala per una diffusa piacevolezza, ovviamente per l'immediatezza della compresione e la suggestione dei gesti e delle musiche, soprattutto quelle tribalespressive dei Tamburi del Bronx. Ecco perché siamo certi che questo Romeo e Giulietta incontrerà il favore del pubblico, anche di quello più giovane e meno sclerotizzato su canoni fissi.

Via tutto l'aneddoto di Capuleti, Montecchi, genitori e nutrice; avanti invece due giovani che si amano divisi da bande di strada. E la grande festa dove i giovani amanti si incontrano è una divertente mascherata di ombrelli neri. Le scene di lotta sono cruente. Il passo a due d'amore è forse troppo acrobatico. Ma in generale Petrillo guida questo gruppo di danzatori, tutti giovani e bravi, con mano sicura, mescolando linguaggi diversi, e tenendo sempre l'interpretazione spinta al massimo; forse troppo.

Romeo e Giulietta, amore e droga

Rimangono all'interno del lavoro celebri passaggi del dramma shakespeariano (il ballo in maschera in casa Capuleti e l'incontro tra i due protagonisti, la morte eroi-comica di Mercuzio, la presenza inquietante di Frate Lorenzo, una sorta di demiurgo anticipatore di eventi) che si susseguono a ritmo incalzante.
Pennellate d'autore drammatiche, irriverenti, poetiche accompagnate da echi sonori, la struggente sinfonia di Prokofiev, mixati ai ritmi percussivi dei Tambours du Bronx: bidoni, chiavi inglesi per ricreare un clima contemporaneo e metropolitano. Un matrimonio in apparenza impossibile, ma pienamente riuscito che ben si innesta in un'atmosfera presaga di sventure. Dominano i colori cupi (il nero, il grigio sul rosso di Giulietta, simbolo di amore e fedeltà) su una drammaturgia coreografica che si accende violentemente su movimento forti, <spezzati>, di una fisicità dirompente, soprattutto nelle scene corali.

Un Romeo "mistico" e dissidente per una Giulietta palpitante

Riflettendo su questo amore, Andrea Scaglione ha scritto una nuova versione del balletto e Loris Petrillo lo ha trasformato in una coreografia bella e incisiva per la compagnia di danza Teatro di Torino di Loredana Furno. Originale e struggente, è andata in scena sabato ad Acqui, nella splendida sede all'aperto del cinquecentesco Chiostro del Seminario. Creazione importante, adattissima ad inaugurare il festival.

Romeo e Giulietta nell'incubo della città - 1 luglio 1996

1994

Alla serie dei balletti narrativi appartiene, infatti, la sua Giara, tratta dalla pièce teatrale di Pirandello, ed esposta in modo caldo e colorito, aggiungendo alla musica di Casella percussioni ottenute con i piedi e con i sassi dai danzatori stessi e una bella ninna nanna palermitana. Con ritmo incalzante e in chiave realistica - Petrillo stesso, di origini siciliane, dichiara di essersi ispirato al film Kaos  dei fratelli Taviani - la vicenda scorre agile e chiara, senza ricorso a movimenti pantomimici, ma giocando piuttosto sulla ritmicità espressiva del gesto.

Tutt'altro clima per Les petit riens, qui in versione neobarocca stilizzata, con lievissimi spunti narrativi di carattere amoroso. Si scherza, dunque, con parrucche incipriate, con scarponcini da jazz o da discoteca, con crinoline a vista sulle gambe nude, e soprattutto con piglio ironico e leggero. Il disegno dei passi, essenziale e grafico, è ingentilito da piccoli vezzi gestuali, di garbo assolutamente contemporaneo e di comicità lieve e misurata, come conviene alla musica, che suggerisce un'atmosfera svaporata più che supportare una precisa narrazione.

Petrillo ha entusiasmo e possiede un certo mestiere, che gli consente di lavorare in souplesse; e, quel che non guasta, conferma di saper arrivare al pubblico in modo semplice  e diretto.

1993

 - spezzata e irta, molto "odierna", pur senza dimenticare le radici, vale a dire un'espressività del gesto che accomuna il modern storico e americano.

interviews

2019

 << Un rapporto di antitesi tracciato intenzionalmente tra due caratteristiche dell’animo umano: la spinta alla decisione, la sicurezza da un lato, l’insicurezza, l’indeterminatezza dall’altro – spiega -. Le ho indagate ed enfatizzate, rispettivamente nel Bolero e nella Gaitè Parisienne, giocando e mescolando le intenzioni sceniche con il carattere musicale di entrambe le partiture>>.

Rilettura contemporanea per i due brani?
<< Oltre che una resa scenica con una danza molto fisica, dove il movimento ritrova la sua centralità come espressione primaria della bellezza dei corpi, per Bolero, mi sono concentrato, per Gaitè, sulla falsa visione della realtà che ogni giorno ci viene proposta, col presupposto che tutto è possibile – continua -. E su questa base niente lo è davvero. L’effetto di questa illusione è solo il caos, l’apparente follia dove tutti sono la proiezione di ciò che vorrebbero essere>>.

 

Forza ed eleganza convivono nel Bolero di Petrillo

2017

Non è la prima volta che mi confronto con un classico del repertorio, è sempre divertente e stimolante rileggere i classici e riproporli in chiave contemporanea. Con il Bolero ho voluto proporre l’immagine di una fisicità esasperata, il cui movimento è sostenuto dall’incessante crescendo ritmico che espone il corpo e lo predispone al superamento dei propri limiti.

Gli interpreti di questo spettacolo sono tutti maschili: perché questa scelta?
Il mio intento iniziale era quello di fare del Bolero un atto di identità svelata, che delinea e si fa misura dei movimenti emotivi caratteristici dell’uomo: il patire e il gioire, la passione e il desiderio di appartenenza, scoperti attraverso una potenza fisica che è sintomo di uno spirito guerriero, capace di vanificare ogni spinta al cedimento e alla rinuncia. E il corpo maschile ben si adatta a questi scopi.

Questo è il suo terzo lavoro, dopo Caravan e Il lago dei cigni, per la compagnia Opus Ballet di Firenze. Com’è nata questa collaborazione?
È una collaborazione nata in maniera del tutto casuale e che ha visto nel tempo maturare ottimi risultati e successi, conseguiti con le creazioni da me coreografate per la compagnia.

Lei si è formato tra l’Italia e la Francia e la sua carriera professionale è proseguita all’estero per molti anni, prima del suo rientro in Italia. Cos’è cambiato nel panorama della danza in Italia e all’estero in questi anni?
Sì, la mia carriera professionale si è svolta quasi del tutto all’estero tra la Svezia, la Svizzera, il Belgio e la Francia. In questi anni a parer mio la danza, anche se ha dato l’impressione di aver avuto uno slancio di interesse tra la gente, ha purtroppo ceduto ad un meccanismo commerciale che ha colpito, tra l’altro, tutto il panorama culturale. Su queste basi, l’amatorialità ha preso il sopravvento, contribuendo alla crescita di quello che io definisco il “nulla artistico”. Fortunatamente, nonostante il quadro generale sia abbastanza avvilente, esistono realtà – poche purtroppo – che fanno un ottimo lavoro e che frenano l’implosione culturale a cui abbiamo assistito.

2016

nella quale tutto confluisce, tutto è espressione di caos, non ci sono limiti alle forme espressive, non ci sono etichette. E questo non sempre è un bene».

Il coreografo estremizza e potenzia il repertorio classico attraverso la sua personale visione che passa attraverso lo studio dettagliato della potenza, della poetica e dell’espressività del corpo maschile oltrepassando il concetto di sessualità e di carnalità del corpo stesso.
Esprimere la propria arte è per Petrillo una necessità fisica, una necessità che non può prescindere dall’indipendenza e dalla libertà e, perché no, dall’ironia.

2012

A lui il compito di mettere in scena una nuova versione di un titolo del grande repertorio, e che titolo! Niente meno che Il lago dei Cigni, che nella sua rilettura per i ragazzi dell’Opus debutta a fine ottobre nel fiorentino Teatro Cantieri Florida.
No, no, nessuna preoccupazione  - ride Petrillo, con molto realismo e sano disincanto -, anzi un’occasione di divertimento! Se si vuole riprendere un titolo culto della tradizione, l’atteggiamento a mio avviso deve essere questo. Ho già affrontato altri titolo, un Don Chisciotte con l’Euroballetto, un Romeo e Giulietta col Teatro di Torino, e il mio approccio è sempre stato questo. Insomma parto da una ‘non pretesa’ e cerco di imbastire un lavoro stimolante per me, per i danzatori e per il pubblico. E poi diciamolo: perché un classico non si può mettere in discussione? Perché non accettare che l’arte possa evolversi e in quel classico trovare nuovi spunti?

- Quale il suo intervento sul libretto originario?
Partendo dal presupposto che ogni testo classico enuclei un’esperienza o una passione universale, ad un superficiale lettura sembra spesso avere uno sviluppo da soap opera. Ma grattando la superficie quello che si racconta è sempre l’eterna storia: il dualismo tra bene e male, tra uomo e donna, tra la fedeltà e il tradimento. Non è forse la storia del Lago? Quindi, d’istinto, mi è venuto in mente di ricondurre la storia proprio a questo: al fatto che inevitabilmente il male si genera dall’inganno erotico che regola i rapporti tra uomo e donna: il cigno ne diventa espressione. Un tema antico come il mondo, pensiamo ad Adamo ed Eva, o ad Artù e Morgana...

- La musica di Caikovsky è un altro colosso da affrontare...

E anche qui ritorna l’idea di divertirsi. Ho danzato tanto repertorio, conosco bene ogni sfumatura musicale del balletto ottocentesco che però oggi sento bandistica, quasi, con i suoi zum-pa-pà! Così ho virato enfatizzando alcuni aspetti grotteschi di questo tipo di musica, pur lasciando alcune delle scene più riconoscibili e mantenendone, coreograficamente, anche le forme degli assoli, dei duetti o delle danze di insieme”.

- Terza sfida, affidare il tutto a interpreti giovanissimi...

Si tratta infatti di ragazzi molto giovani, formati più al modern che al contemporaneo. Molto volenterosi, ma certamente – anche per il fatto che questo Lago è stata una commissione – ho preferito in qualche modo mantenere chiaro e ancora riconoscibile il tratto ‘ballettistico’. Altrimenti avrei fatto un Lago meno riconoscibile”.

- E’ per questo che nel lavoro usa molti stili? Per dare ai danzatori un ventaglio di linguaggi in cui cimentarsi?

Sì, il divertimento è anche nel provare a fondere vari vocabolari: modern, balli di sala, accenni di classico, improvvisazione teatrale. Personalmente sono sempre stato attratto dal virtuosismo fisico della danza, inteso come espressione della potenza atletica e insieme espressiva del movimento. Il pubblico deve sorprendersi della qualità che un danzatore esprime proprio nell’atto stesso di danzare. È una mia prerogativa, che applico anche nei miei progetti coreografici: dare priorità alla danza danza. Oggi nell’ambito della ricerca invece si sta andando verso una negazione del movimento. È una cosa che mi preoccupa e vorrei chiedere ai miei colleghi ‘perché non si danza più’?

2011

“Il cece nel secchio”, un trattato sulla vera identità della follia, “Il tango della depressione, un quadro ironico sul disagio coniugale, “Il Racconto della Sposa”, una finestra sulla condizione sociale femminile, “Spostamento obbligato”, un’attenta riflessione sulla problematica dell’emigrazione dei popoli, fino a “ Bobby Sands,” una denuncia sulla condizione dei prigionieri politici dell’Irlanda

“Il mio mestiere è quello del coreografo e sentirmi socialmente attivo mi aiuta a rendere utile questo mestiere che altrimenti mi annoia. Creare spettacoli che abbiano qualcosa da dire, da denunciare o da ricordare è ciò che da senso al mio lavoro. La danza come intrattenimento la trovo insensata e di poco valore”

Dove affondano le radici del suo personalissimo linguaggio coreografico che propone lavori caratterizzati da un’estrema fisicità e personalità dei danzatori?

“Le sembrerà strano ma le radici del mio linguaggio coreografico affondano proprio nella terra. E’ la terra che in genere mi dà l’ispirazione e nient’altro. In genere parto da lì e poi cerco di dare delle risposte alle mie curiosità attraverso studi di matematica, fisica, filosofia…”

2009

C’è un momento in cui ogni artista percepisce con chiarezza che se davvero vuol capirsi, se veramente vuol capire il suo posto nel mondo, allora deve stare in silenzio, volgersi agli altri, ascoltarli con attenzione, schierarsi, partecipare alle battaglie degli uomini, anche a quelle piccole, forse insignificanti. In fondo tutti siamo piccoli, tutti abbiamo bisogno degli altri. Arriva il momento in cui il linguaggio specifico di un’arte non basta più: si ha bisogno di sentire le parole degli altri, sentirne il suono, sentire esattamente come gli uomini si raccontano, ascoltare il dolore restando in silenzio. Ma restare in silenzio è difficile, anzi forse è il punto più alto nella maturazione di un artista: non è afasia, ma il riconoscimento del giusto valore delle cose, del tempo, degli altri, del tempo degli altri, del proprio lavoro. Un silenzio che non è distratta chiusura ma partecipazione profonda, ricerca di autenticità. C’è un momento insomma in cui ogni vero artista smette di pensare al suo lavoro in termini di quantità e vi cerca profondità di visione, concreta saggezza, serietà della comunicazione. È in uno di questi momenti che ci sembra di aver incontrato Loris Petrillo, uno dei più interessanti coreografi della danza italiana contemporanea: Petrillo si trova in residenza a Catania nello spazio di Scenario Pubblico, ospite, da coreografo e docente, di Roberto Zappalà che ne produce anche gli spettacoli. Lo abbiamo incontrato.

Loris ci racconti come s’è dipanata la tua formazione?

Sono nato a Carpi, da mamma siciliana e papà campano. Ho vissuto a Palermo dai quattro fino ai sedici anni. Ho cominciato a studiare danza da bambino a Palermo, nella scuola del Teatro Massimo. La scuola era al Teatro di Verdura, una scuola di danza completa, vera e per di più gratuita. Ma ad un certo punto quella situazione mi stava troppo stretta. Le mie esigenze non trovavano risposta in quei luoghi e io non esitavo a contestare quanto secondo me mancava. Fu per questo motivo che fui invitato a lasciare la scuola: stai rompendo..., mi dissero chiaramente. Me ne andai. Feci un concorso a Roma, non lo vinsi ma mi feci notare e mi presero a lavorare in alcune compagnie romane. A un certo punto mi sono reso conto che il mio bagaglio tecnico non era abbastanza forte, volevo crescere e non restare nella media. Andai a studiare a Parigi finché non fui pronto, a parere del mio maestro, a tentare audizioni nelle migliori compagnie. Così sono restato all’estero per tredici anni ricoprendo ruoli, da solista prima e primo ballerino poi, al Ballet Royal de Wallonie in Belgio, al Goteborg Operan Ballet in Svezia, allo Stadttheatre di Berna in Svizzera e poi, in Italia, al Balletto di Toscana e al Teatro Regio di Torino. Una carriera classica fino a quando, dopo un incidente alla gamba, ho cominciato a cambiare il mio punto di vista e le mie aspettative verso la danza: non puoi contare più su un certo potenziale fisico, cambi punto di vista, cerchi il dinamismo, l’espressività, la densità del linguaggio”.

Quindi l’interesse per la coreografia.

Verso i trentatre anni s’è fatto sentire in me l’interesse per la coreografia. Mi sono messo alla prova in un concorso, l’ho vinto e il direttore artistico del Regio di Torino mi ha commissionato un primo lavoro. Ho iniziato a firmare coreografie per numerosi Teatri e Compagnie. Negli anni, oltre al mestiere di coreografo mi sono dedicato alla docenza in corsi di alta formazione professionale, tra cui quelli indetti da Aterballetto, da Modem/Compagnia Zappalà e da diversi altri enti in tutta Italia. Dal 2000 sono direttore e coregrafo della Compagnia Petrillo Danza oggi in residenza qui a Scenario”.

Il tuo lavoro di coreografo si caratterizza per una forte tensione verso il sociale se non addirittura politica.

Mi sono scocciato di fare danza pura. Ho voglia di costruire e raccontare storie che tutti capiscano. Lavoro accostando alla danza l’uso della parola che meglio di ogni altra forma comunicativa rende fruibili concetti e situazioni. Tale necessità è molto evidente nel mio ultimo spettacolo La pelle del popolo nudo, realizzato con la collaborazione del drammaturgo Massimiliano Burini che ha scritto i testi ed è presente in scena. È uno spettacolo sulla storia (complessa, oscura, per molti versi irrisolta, spesso dolorosissima) del separatismo siciliano: un lavoro in cui danza, parola, suono si fondono in una forma di comunicazione diretta. Mi piacerebbe che la danza, la mia danza almeno, non fosse solo intrattenimento. È un’esigenza personale, profonda. Oggi trovo il mondo della danza un po’ instupidito. La danza nasce ancora oggi troppo spesso in luoghi chiusi, ovattati. È difficile trovare nella danza artisti che si occupano del momento storico, delle problematiche che urgono nella contemporaneità. Desidero invece che le persone che vedono un mio lavoro possano riflettere su qualcosa: possano anche non condividere quanto penso e dico, ma in una discussione, in un vero confronto ideologico, etico e perché no anche politico, purché uno scambio vero avvenga.

Non credi che però la stessa perfezione artistica del gesto coreografico possa essere già in sé “politica” nel momento in cui sempre più la realtà diventa volgare?

“Innanzitutto non credo nella danza come forma di perfezione e, se tale perfezione si attribuisce ad un gesto coreografico, dove per gesto coreografico si intende un passo di danza, per me ne risulta una forma puramente estetica, vuota, senza valore, priva di senso comunicativo, troppo flebile per contrastare la realtà, spesso volgare è vero, che ci circonda”.

Da dove trai l’ispirazione? Che ambiti della realtà di solito ti sollecitano maggiormente.

“Partendo dal presupposto che non creo una danza intesa come sequenza coreografica, ma come forma comunicativa, cerco di trovare qualcosa di necessario da dire. Traggo ispirazione in ciò che va oltre la danza e che possa stimolarmi: la terra, la storia, i rapporti sociali, gli scontri veri, gli oggetti, la scienza. Stimoli di assoluta semplicità ed autenticità”.

Però il tuo è un linguaggio colto: non è solo quello della terra, della normale comunicazione.

“Provo a portare l’intenzione del corpo verso la semplicità della terra, non voglio sublimare o rendere etereo il corpo e, se si ritiene il mio linguaggio colto è proprio per questo motivo. Trovo più interessante il messaggio della terra che quello di alcune fonti di falsa e noiosa intellettualità.

Nel panorama internazionale della danza quali sono gli aspetti che ti interessano maggiormente?

“Tutto e tutti, tutti e non tutti: ma devo riconoscere in un’esperienza artistica, nel lavoro di un coreografo o di una compagnia, una sostanza di autenticità. Oggi tuttavia comincio ad avere qualche problema con quanto si produce nel nord Europa, pur riconoscendone a volte, non sempre la qualità. Credo molto nella qualità dei coreografi e dei danzatori italiani che nulla hanno da invidiare alle realtà estere ma risentono di due difficoltà: la tipica esterofilia italiano, miope e fine a se stessa, e lo scorso sostegno economico che oggi in Italia si dà alla cultura”.

1998

 Il coreografo modenese sigla così, tra emozione, paura ed orgoglio il senso di un incarico nuovo e particolarmente impegnativo.
Loris Petrillo, già solista e primo ballerino nel Balletto di Toscana e il Balletto Reale della Wallonia, tra gli altri, e oggi coreografo con una dozzina di creazioni all’attivo. Per il suo “Lamento di Prometeo”, utilizza i quindici elementi della compagnia, e distribuisce in mezz’ora circa di danza la musica di Giuseppe Calì. “Una partitura – dice Petrillo – che non è iscritta ad un preciso modo d’essere, classico o contemporaneo o astratto, ma ha un suo preciso ritmo, che potremmo definire narrativo, e che ben si adatta al mio modo di lavorare. Inizialmente - precisa Petrillo – non lavoro mai con i danzatori ma improvviso molto, secondo un approccio alla coreografia che è molto istintivo. Così l’insieme di situazioni che emergono in questo balletto va dal grottesco al primitivo alla contemplazione estetica. Tutto da vedere è allora il risultato dell’operazione che mi faciliterà o complicherà la vita”.  Come confessa l’autore, “perché faccio rivivere Leopardi, il suo senso di sofferenza nel e per il mondo attraverso il mito di Prometeo. Metto in scena un senso del dolore che diventa stimolo alla conoscenza, un modo radicale per approfondire la verità delle cose”. Ai danzatori dell’Aterballetto, “talmente splendidi che si immergono in qualsiasi tipo di movimento e di situazione tecnica”, Petrillo non “chiede” nulla: “Scopriamo e troviamo insieme il modo e il senso della coreografia. Perché io non parto mai da elementi certi, da qualcosa che ho già in mente e che è già predestinato a diventare. Preferisco, sempre, fare nuove scoperte. Quindi, più che di richiesta parlerei di collaborazione, che i ballerini hanno fornito pienamente”.

Loris Petrillo è tranquillo, ha quasi finito di montare i quadri del balletto, le scenografie sono state piazzate e l’orchestra sembra far vivere per la prima volta ciò che lui e ballerini hanno sino ad ora ascoltato nel dat computerizzato.

Che sensazione si prova quando si inizia un lavoro che non ha riferimenti in repertorio, che non ha dietro una storia artistica?
Quando l’approccio è con una musica appena composta, non c’è subito una sensazione. C’è piuttosto un impatto professionale che stimola e comincia a farmi pensare al nuovo balletto”.

Cosa l’ha guidato nel caratterizzare Sprint?
Ciò che mi guida in un nuovo lavoro è soprattutto l’istinto. Non voglio mai ripetermi e non presento mai lo stesso stile. Non credo di essere riconoscibile per stereotipi. Io valuto la nuova compagnia, l’atmosfera che c’è, il tipo di musica e poi inizio a creare. Non voglio avere un vocabolario preciso: questo mi aiuta sempre a rinnovarmi e ad esprimermi in diversi modi”.

Nello specifico cosa ha inventato?
La storia è un rapporto dialettico tra tre personaggi che ruotano intorno al mondo del ciclismo. Il balletto è risultato molto geometrico, molto rigoroso, anche se i passaggi romantici sono tratteggiati in modo armonioso. Ho cercato di disegnare la dualità che c’è nei due personaggi maschili, che poi è il doppio che c’è anche in noi. Da un lato siamo tesi verso il successo, dall’altro c’è la consapevolezza che altrettanto importanti sono gli ideali e i grandi sentimenti”.

LA CARRIERA
Da interprete a creatore

Loris Petrillo ha studiato danza, musica e storia della danza al Teatro Massimo di Palermo, all’Accadémie Internationale de Danse de Paris e al Conservatoire Régionale de Paris.
Ha danzato in molte compagnie e teatri sia come solista che come primo ballerino: al Balletto di Toscana, al Ballet Royal de Wallonie (Belgio), alla Compagnia Virgilio Sieni Danza, al Goteborgs Operano Ballet (Svezia), allo Stadttheater di Berna (Svizzera), al Teatro Regio di Torino, interpretando coreografie di Robert North, Jorge Lefebre, Michael Mc Kime, Jean Luc Leguay, Arais, Van Manen, Roussillo, Paoluzzi, Francalanci etc.
Dopo un’intensa attività di ballerino, Loris Petrillo si è dedicato negli ultimi anni alla creazione coreografica, firmando lavori di pregio in molti teatri italiani e per diverse compagnie di danza.
Ricordiamo le creazioni per il Teatro Regio di Torino dove Petrillo è stato anche maitre de ballet nel 1996 (“Insensato Sproloquio”, “Les Petits Riens”, “La giara”, “Histoire d’eau”, “Romeo e Giulietta”, “Quartet”, “Tenco”, “Histoire du soldat”, “Underground”), le coreografie per la Compagnia Euroballetto (“Quattro... alle 10.30”, “Don Chisciotte”) e “1,2,3,4... 5,6,7,8” per la rassegna di danza “Off Broadway”.

1994

I movimenti di danza?
<< Per Les petit riens, storia lieve di un Cupido dispettoso che si diverte a fare innamorare le persone sbagliate, ho creato movimenti ironici e divertenti, così come sono decisamente spiritosi i costumi di Laura Viglione. >>

E per La giara, testo immancabile nelle antologie della scuola dell'obbligo?
<< Ho voluto che i ragazzi la ritrovassero tale e quale l'avevano immaginata leggendola in classe. Quindi la coreografia è fedele al testo. Mi sono preso qualche libertà solo con la musica di Alfredo Casella, a cui ho aggiunto voci e suoni e, sopratutto, la ninna nanna palermitana del mio amico compositore Francesco Giunta>>.

La danza?
<< A Parigi, con Dan Moisev che era stato con il marchese De Cuevas ed insegnava danza classica al conservatorio. Seguivo spesso anche le lezioni di Marcel Marceau. Poi Cristina Bozzolini mi ha arruolato nel suo Balletto di Toscana e sono tornato in Italia. Da lei, a Firenze, ho conosciuto Robert North, Polyakov e tanti altri coreografi stranieri che mi hanno fatto venir voglio di ripartire>>.

Destinazione?
<<Charleroi, al Ballet Royal de Vallonie. E due anni dopo a Berna, chiamato da Michael Mac Kime. La Svizzera mi piaceva, mi trovavo benissimo ma meditavo di andarmene. Da pochi mesi era nato mio figlio e volevo rientrare in Italia>>.

Ci riuscì?
<<Sì, per fortuna: Jean Luc Leguay mi scelse per la Compagnia di Balletto del Teatro Regio. Accettai immediatamente e arrivai a Torino. In tempo per danzare in una serata di stelle, con Fernando Bujones e Noella Pontois>>.

L'anno seguente però Jean Luc Leguay se ne andò.
<<Ma arrivò Robert North ed io interpretai il Cristo nella sua Annunciation>>.

E' stato North ad avvicinarla alla coreografia?
<<Credo di sì. In ogni caso mi sento suo discepolo>>.

Che accadde quando la Compagnia del Regio venne sciolta, nell'autunno del '92?
<<Molti, ed io sono tra quelli, vennero richiamati come liberi professionisti>>.

Risale a quel periodo il suo primo lavoro coreografico?
<<Sì, allora creai Insensato Sproloquio e lo presentai al Regio. Sembrò piacere anche al pubblico e così il Teatro mi commissionò Les petit riens e La Giara>>.